Still Alice

Still Alice, tratto dall’omonimo romanzo di Lisa Genova, scrittrice e neuropsichiatra, è diretto da Westmoreland e Glatzer (2014).

Il drama movie è una nuova conferma per il duo indipendente che già nel 2006 aveva riscosso successo di pubblico e critica con Non è peccato – La Quinceañera, durante il Sundance Festival. Stavolta la coppia ritorna dietro la macchina da presa, nonostante la malattia che ha colpito Glatzer durante la lavorazione. Infatti, dopo la diagnosi di SLA il regista è riuscito a dirigere la pellicola con il suo compagno Westmoreland attraverso un’applicazione dell’Ipad.

Still Alice è la storia Alice Howland (Julianne Moore), una donna di cinquant’anni che insegna linguistica presso la Columbia University, con John, marito premuroso (Alec Baldwin), e tre giovani figli (la più piccola, Lydia, interpretata da Kristen Stewart). Iniziano a capitarle strani episodi, come dimenticare parole o perdersi in luoghi familiari. Alice decide di farsi seguire da un neuropsichiatra che le diagnostica l’Alzhemeir. Parte così una battaglia terribile, commovente e ammirevole, dove cerca di rimanere legata alla persona che era una volta.

Incredibile, umana e vulnerabile l’interpretazione di Julianne Moore, che le ha permesso di aggiudicarsi la sua prima statuetta dorata per la migliore interpretazione femminile durante l’ultima notte degli Oscar. La Moore è riuscita a trasmettere perfettamente ciò che si prova a vivere la scoperta di un male incurabile come l’Alzhemeir, per una donna colta che aveva costruito la sua esistenza sulla sola forza dell’intelletto. Riesce a farci comprendere l’importanza del linguaggio e quanto lo stesso influenzi il nostro pensiero, strettamente connesso con la nostra esistenza.

Non convince pienamente il marito premuroso Alec Baldwin, forse per via di un approfondimento superficiale del suo personaggio durante la narrazione. Credibile ed intensa Kristen Stewart, che si allontana completamente da Bella di Twilight, personaggio che le ha donato la popolarità hollywoodiana. La Stewart, complice della Moore, convince con il dolore e la forza della sua interpretazione. Inoltre, è il suo personaggio a donarci un messaggio di speranza attraverso la battuta finale “Amore, parlava d’amore”. Tre semplici parole che ci lasciano intendere come sia possibile relazionarsi con i malati, proprio attraverso un linguaggio universale ed imperituro.

Tutti i personaggi sono voci essenziali di un limpido racconto, dove si adotta una narrazione sincera e lucida per parlare d’amore, ma anche di odio, accettazione, vita, rinunce e morte.

Alcuni di voi potrebbero pensare che Still Alice sia la semplice trasposizione cinematografica di un dramma, un cliché cui siamo abituati da tempo finalizzato alla spettacolarizzazione della malattia stessa. La realtà è un’altra: Still Alice è un grande confronto umano. Con questa pellicola, Glatzer (doppiamente coinvolto nella vicenda) e Westmoreland ci offrono l’opportunità di conoscere una malattia terminale, incurabile e che nasconde due terribili conseguenze: l’isolamento del paziente dal mondo esterno, ma soprattutto la trasformazione dello stesso in un essere indifeso, comico e irriconoscibile che perde ogni ricordo, inteso come bene e testimonianza della nostra vita.