LE COSE ROVESCIATE

di Sarah Cicolini 

Resta solo un alone. Per nulla sbiadito.

Paragono il nostro incontro a come quando, quel giorno, ho rovesciato un’intera tazza di caffè su un tavolo bianco.

Sentivo solo il peso dell’hangover, avevo voglia di quel caffè. E l’ho rovesciato.

è rimasto così per ore. L’ho osservato. Poi mi è piaciuto, così l’ho lasciato.

Pensa a te, una sera, una delle tante sere che esageri e ti cade a terra un bicchiere.

Io lo lascerei lì. Aspetterei che mi dessi un bacio sulla fronte, quando Roma, la sera a giugno, si fa amare di nuovo. Sono madida di sudore, sogno solo una doccia. O fare l’amore.

E allora prendiamoci, facciamo l’amore, a terra.

Facciamolo intorno a quel bicchiere rovesciato, mentre l’odore dell’alcool evapora.

La gente è ossessionata dall’ordine, ma io mi addormento sempre sul bucato appena raccolto, sulle magliette bianche non piegate, sull’odore di acqua e sole.

è da quel disordine che nascono tutte le cose.

Le cose più belle nascono dalle lenzuola piegate male, quelle che restano a metà tra il materasso e il pavimento.

Le cose belle nascono solo quando la psiche cede il passo a tutto quello che non segue schemi predefiniti.

Dalle tue mani escono sinfonie sottoforma di colori e di sapori. Mi sembra di vederle muoversi, quando ti penso.

Quando il mondo langue, nella tua testa si agita un’immensità che difficilmente riuscirei a catturare e a racchiudere. Se  mi regalassi una parte di te, mentre ti pendo la mano e ti accarezzo le labbra che si muovono piano, al ritmo del passo felpato di un felino, mentre esorcizzi tutti i ghetti del mondo, sarei concreta come la gran parte di tutti i tuoi sogni.

Arrivi come tutte le cose che ti lasciano un segno indelebile, arrivi come arriva un regalo inaspettato un giorno qualunque, che non è il tuo compleanno né Natale.

Di storie nel corso della mia vita ne no sentite così tante che forse non sarei nemmeno in grado di raccontarle tutte, perché forse hanno tra di loro in comune qualcosa. La tua mi ricorda anche i libri che ho letto. O forse mi ricorda qualche canzone, ed è per questo che preferisco non dare un volto ai personaggi di De Andrè.

“Teresa ha gli occhi secchi, guarda verso il mare, per lei figlia di pirati penso che sia normale. Teresa parla poco, ha labbra screpolate. Mi indica un amore perso a Rimini, d’estate.”

Nel posto che Pasolini ha definito “la corona di spine che cinge la città di Dio” ho scoperto che esiste una Teresa in te. Esisteva anche in me, prima. Ora te l’ho ceduta.

Vicino al luogo dove mi hai portata la prima sera ci sono dei graffiti, dei murales di una veridicità disarmante. Lo sguardo laconico di Pasolini, gli occhi secchi di Teresa. I tuoi occhi.

Li ho notati subito.

Io abbasso spesso lo sguardo, tu no.

Apri gli occhi, guardi le cose con fierezza. In quell’istante sei più paragonabile ad un animale che ad un uomo. Hai il fare di chi non scappa, di chi non ha paura mai, di chi si costruisce una fortezza inespugnabile e tutti i giorni se ne prende cura.

Esistono troppe velleità al mondo. Esistono davvero troppe frasi fatte, troppe parole dette per sbaglio e troppi schemi predefiniti.

Esistono quelle cose che le persone non hanno il coraggio di pronunciare, e tu sì.

Esistono pure le religioni, e ognuno ha la sua. O crede di averla. Tu sai di averla,  ed è questo che ti rende unico. Sapere, conoscere, avere una cognizione reale.

Il sentimento di fratellanza, per esempio. Un uomo che ammette di avere dei fratelli, persone che non esiterebbero un minuto prima di venirti incontro.

Tutto questo è così bello.

Allora mi innamoro.

Per la prima volta nella mia vita ricollego quel momento ad un odore. “Torno ora da lavoro”, ma io non sento la cucina. Sento l’aria che t’è entrata dentro mentre correvi in moto, sento l’ultima Chesterfield rossa che hai fumato.

Quando avverto solo l’estraneità e le distanze, penso che non ti voglio dimenticare. Penso che una vita incontrata e incrociata, pure se vissuta per poco, quando la si è amata, vada preservata nel profondo.

Così farò.

A tutte le promesse sussurrate nella notte, quando solo uno dei due poteva esserne testimone, io regalo un posto che nessuno può vedere. Lo costruisco e lo proteggo. Sempre.

Tutto ciò che la mente dovrebbe distruggere, paradossalmente, resta indelebile e scolpito come un calco. Un fossile.

Il dolore è tutto ciò che senti se un granello di te scivola, per sbaglio, dentro quel disegno in negativo.

Quei granelli mi sfuggono se mi perdo nei gesti quotidiani, se ogni cosa che faccio mi fa immaginare come sarebbe potuto essere tutto quanto se la sindrome cronica d’abbandono non avesse devastato i fili che giorno dopo giorno stavamo mettendo insieme.

Diventavano spaventosamente lunghi. Ti ricordi?

Vuol dire che li stavamo lavorando bene, vuol dire che ci stavamo investendo buona parte di noi.

Chissà poi che fine hanno fatto.

Non ci perdiamo nelle spiegazioni, quasi mai. Non ci volevamo regalare niente di brutto, niente di pesante, niente che avesse i chiaroscuri di una vita troppo reale.

Volevamo regalarci il meglio, solo il meglio.

La perfezione. Che non è di questo mondo. O che, forse, è un concetto relativo.

Ci hanno inculcato idee malsane, troppo radicali.

Io ora sento questa malattia. E me la porto addosso. Ma non mi intacca la mente, perché distrugge come un pugnale trafigge un cuore che, al suo passaggio, resta sofferente. Sanguinante. E spappolato.

Non vado mai oltre le poche righe che separano me dalla vita reale…