SARAMAGO: Storia dell’assedio di un’anima, la mia.

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di Fabiola Palumbo

Sarebbe bello poter dire che quando nell’ormai lontano 1998 José Saramago, lo scrittore lusitano delle meraviglie, venne insignito del Premio Nobel per la letteratura (ad oggi l’unico letterato portoghese ad aver avuto questo prestigioso riconoscimento) io ero lì a esultare e a dire che questa scelta non poteva davvero ricadere su una persona e/o personalità più meritevole. La verità è che all’epoca puzzavo ancora tantissimo di latte e purtroppo non sono stata poi così culturalmente precoce come avrei voluto.

Tuttavia posso affermare con soddisfazione che con il tempo sono migliorata e ho cercato di recuperare il tempo che avevo impiegato a venerare Barbie, cartoni animati e serie tv anni ’90 (tutto cose che comunque non rimpiango, sia chiaro. Come si può rimpiangere Lady Oscar? O Barbie Hollywood? O ancora Beverly Hills 90210? È umanamente impossibile!). C’è stato subito un grande feeling con le parole nate dalla penna di quell’uomo che sempre ricordo con indosso quel suo grande paio di occhiali, è stato un amore immediato e che è proceduto spedito, senza mai una crisi o una battuta d’arresto.

La mia adorazione nei confronti del caro Zé non è arrivata in maniera diretta, ma per vie traverse, e che vie traverse! La strada che ho percorso per giungere alla mia personalissima meta finale passa per il centro di Lisbona, si ferma per prendere qualcosa da bere alla Brasilera (celebre e storico caffè sito in rua Garrett, nel pittoresco e poetico quartieri dello Chiado), magari una bica o, ancora meglio, qualcosa di più alcolico visto che sto parlando di Fernando Pessoa.

Per chi non dovesse conoscerlo, una piccola digressione su Fernando è doverosa: oggi è ritenuto uno dei poeti più rappresentativi del Portogallo e del XX secolo in generale, ma a questa consacrazione fa da contrappeso una vita defilata vissuta nel più totale animato, tanto è vero che per lui la fama non arriva in vita né subito dopo la morte, come spesso è accaduto per altri artisti, bensì, tardiva, a distanza di circa cinquant’anni da quel 1935, anno della sua scomparsa. Una vita la sua che da un lato non è comune (l’infanzia trascorsa a Durban, la precocissima ispirazione letteraria, il fermento culturale nel quale sempre si è mosso), ma che dall’altro lui si è impegnato tantissimo a mortificare, accettando quasi passivamente di svolgere per tutta la vita il lavoro di corrispondente e stentando – sempre – a entrare nel vivo del panorama letterario portoghese con passo di marcia, come gli sarebbe giustamente spettato.

Stare qui a elencare i meriti di questa straordinaria personalità è impensabile, non basterebbe un’enciclopedia. Tornando però a quelli che Pessoa ha avuto nella mia vita basterà dire che questo splendido poeta aveva un vezzo alquanto particolare: quello di scrivere di suo pugno poesie, saggi o quant’altro, ma di firmarli con nomi inventati. In pratica era dotato di una certa predisposione mentale nell’inventare personalità. La cosa potrà sembrare banale, penserete in tanti che gli pseudonimi sono sempre esistiti, non è certo stato il primo. La cosa particolare nel suo caso è che questi personaggi fittizi erano tutti sfaccettature della personalità dello scrittore, non altri da lui, ma altri lui e sono conosciuti con il nome di eteronimi. La reale particolarità, però, è che essi avevano una vita vera e propria, con tanto di studi sostenuti, di lavoro, di un certo stile di scrittura che li caratterizzava, di una data di nascita e di una di morte. Avete capito bene, anche la data di morte. Per tutti tranne che per un certo Ricardo Reis.

Nell’invenzione più totale, Ricardo Reis nasce a Porto nel 1887, si trasferisce in Brasile nel 1919, è un medico che ama Lucrezio, Virgilio e Properzio, ma soprattutto Orazio e la cui opera letteraria è costituita da circa duecentocinquanta odi. Si configura come un classicista per eccellenza. Un’esistenza perfetta, se non per il piccolo particolare di cui sopra. Ed è qui che entra in gioco Saramago con l’ Anno della morte di Ricardo Reis.

L’anno della morte di Ricardo Reis viene scritto nel 1984 con grande coraggio da parte dello scrittore visto che quello pessoano è da sempre considerato un luogo sacro e inviolabile, dove qualsiasi incursione è guardata con sospetto se non con diffidenza. Lui risolve la “grave” mancanza di Pessoa fissando la morte dell’ eteronimo nel 1936, un anno dopo quella del suo creatore e annus horribilis della storia portoghese.

Mi imbatto in questo libro casualmente, ovviamente in libreria. A volte capita che nelle grandi librerie vengano proposti dei titoli consigliati dai lettori, nel senso che alla copia esposta si accompagna una breve recensione scritta a mano (che cosa bella!) dal lettore in questione. Pur non avendo mai letto nulla di suo, conoscevo già Saramago per la sua fama e conoscevo anche Ricardo Reis perché ho sempre amato Pessoa e inoltre perché quello era il mio primo anno da studentessa di lingua portoghese all’università di Pisa, quindi ero davvero molto fomentata al riguardo. Non conoscevo questo libro in particolare e non è con esso che ho iniziato la mia avventura saramaghiana. Tornata a casa ho iniziato a documentarmi, a leggere la sua biografia, qualche trama e davvero non riuscivo a capire quale mi intrigasse di più.

Alla fine ho optato per Cecità (molto più bello il titolo portoghese Ensaio sobre a Cegueira, ossia Saggio sulla cecità) e davvero la scelta non poteva essere migliore. Un libro di 276 pagine divorato in meno di 36 ore. Staccarsi era impossibile, le ore impiegate per dormire sarebbero state ore sprecate. Ero felicissima perché era da tanto che un libro non mi prendeva così (la stessa cosa sarebbe successa qualche anno dopo con Norwegian Wood di Haruki Murakami, ma questo è un altro discorso). Uno stile di scrittura mai visto e mai letto prima, pagine fittissime, punti e a capo che si possono contare sulla punta delle dita tanto sono pochi, virgolette a scandire gli scambi di battute impossibili da trovare, dialoghi fittissimi e quasi difficili da attribuire ai personaggi che parlavano in quel determinato momento della storia, periodi lunghissimi come se piovesse eppure per niente dispersivi, anzi con la conseguenza di conferire alla lettura un andamento che procedeva a ritmi serrati. E che dire della storia? Malattia, paranoia, sfiducia eppure tanta realtà e tanta crudele possibilità, motivo per cui nel libro c’è anche molto di inquietante. Personaggi delineati con lucidità e detentori di talmente tante sfaccettature da sentirsi confusi. È davvero possile che l’animo umano sia caratterizzato da così tanti aspetti anche totalmente opposti tra di loro? Sì, è possibile e pochi son riusciti a renderlo con l’efficacia e la sincerità di Saramago. Da questo libro qualche anno dopo è stato tratto un film (Blindness – Cecità di Fernando Meirelles, con Julianne Moore, Mark Ruffalo e Gael García Bernal), ma sinceramente, nonostante il cast stellare e la storia di partenza, credo che nemmeno il regista più talentuoso del mondo sarebbe riuscito a mettere su pellicola quello che il nostro scrittore ha messo su carta.

Dopo Cecità ero come la famosa pallina sul piano inclinato, non riuscivo a fermarmi. Ho letto praticamente tutto e mi sono innamorata di tutto. Analizzare libro per libro sarebbe da folli, ma non si può non citare Memoriale del convento – quello che mi è piaciuto di più in assoluto e che a detta di molti è da considerare il suo capolavoro – e la straordinaria storia d’amore tra i due protagonisti, Blimunda e Baltasar Mateus Sette-Soli: “Si distaccò la volontà di Baltasar Sette-Soli, ma non salì alle stelle, se alla terra apparteneva e a Blimunda”.

Bastano queste poche parole per avere un’idea della poesia; così come non si può non ricordare un’altra storia d’amore, forse una delle più belle e delle meno convenzionali mai scritte, cioè quella tra il Raimundo Silvia e la Maria Sara di Storia dell’assedio di Lisbona, romanzo bellissimo e purtroppo non il più conosciuto tra i suoi. Un libro ricco di profondità e di aforismi meravigliosi che ti portano a maledire qualunque cosa perché sai che nemmeno tra altre mille vite sarai in grado di scrivere qualcosa di altrettanto bello e significativo; e che dire del “blasfemo” Il Vangelo secondo Gesù Cristo? Opera controversa che più di ogni altra gli ha alientato le simpatie della chiesa, portoghese, ma non solo, e lo ha reso ancora più inviso ai suoi detrattori politici, che hanno erroneamente scambiato questo suo lavoro per un passo falso dello scrittore, non sapendo forse che invece è stato scritto con tutta la lucidità di una mente vivida e brillante come solo quella di Saramago poteva essere.

Uno scrittore illuminato, una personalità eccezionale e, in quanto tale, rarissima. La motivazione con la quale gli venne assegnato il Nobel riassume tutto quello che lui è stato: “con parabole, sostenute dall’immaginazione, dalla compassione e dall’ironia ci permette continuamente di conoscere realtà difficili da interpretare”.

Scrivere la mia tesi triennale su di lui, su Pessoa e su un altro (quasi) portoghese straordinario come Antonio Tabucchi mi è sembrato un passo obbligato, una sorta di dovere morale. Ed è stato meraviglioso realizzare come a distanza di anni ricordassi ancora a memoria stralci delle cose che ho scritto e delle loro parole che ho ricordato. Una sorta di caramella dolcissima per l’anima.

Quello con la scrittura di Saramago è l’incontro della vita per una persona come me che alla sua vita non vorrebbe chiedere altro che essere un bel libro da raccontare.

P.s. E capisci che è vero amore quando in una domenica afosa, in una grande città quasi deserta come solo Roma sa essere il 27 di luglio, esci un po’ demotivata dalla metro asfissiante e trovi un piccolo banchetto di libri di un ambulante e la prima cosa che ti salta all’occhio è una copia un po’ mal ridotta di Memoriale del convento. Ed è subito gioia. E subito torno a sentirmi Blimunda, ma questa volta – per una volta – con la voglia di voler vedere solo le cose più belle contenute in quei mai scontati contenitori di anime che sono i nostri corpi.